Il Tour de France che si è appena concluso ci ha lasciato in eredità una spettacolarità che era veramente mancata negli ultimi anni, specialmente se confrontati con quelli di inizio millennio. Certo, all’epoca esisteva un certo Lance Armstrong, e la sua squadra faceva veramente paura: probabilmente tutti, se fossero stati lasciati liberi di correre per conto proprio, sarebbero stati in grado di lottare per una top 10 nella classifica generale. Questo si traduceva in un forcing asfissiante, che partiva già dalle prime salite di giornata, o dai piedi dell’ultima se questa era da sola, e che di certo lasciavo i rivali del Texano, comunque più forte, a corto di energie, quindi non più sufficienti per attaccarlo. Anche perché lo spazio era poco.
Escludendo la Vuelta Espana, che ricopre nel panorama internazionale un ruolo minore, è sempre stato chiaro ad ogni appassionato che il Tour de France presenta, ad ogni edizione, un percorso più facile rispetto al Giro d’Italia. La corsa nostrana, infatti, vanta un numero indefinibili di valici, che possono accendere la corsa. Basti ricordare nomi storici come il Colle dell’Agnello, il Mortirolo, il Gavia, il Finestre, il Sestriere, Tonale, Pordoi, le tre Cime di Lavaredo, Gardeccia, Fedaia, Giau, Zoncolan, San Pellegrino e chi più ne ha più ne metta! Spesso e volentieri alcuni di questi sono posti nella stessa tappa, e rendono la selezione in montagna incredibile. Basti pensare alla quindicesima Tappa del Giro d’Italia 2011, che presentava oltre 6000m di dislivello: dopo Piancavallo e Forcella Cibiana son stati scalati nell’ordine Giau, Fedaia e ,appunto, Gardeccia per un totale di 230km massacranti. Non è raro trovare almeno in ogni edizione del Giro un tappa con 5 o più gran premi della montagna con una distanza totale percorsa che superi i 200km. E’ invece più difficile al Tour de France, dove le salite sono in numero minore, e non così ardue. Caratteristica classica delle vette scalate nelle corsa transalpina è la lunghezza superiore ai 13-14km e pendenze fra il 7 e l’8% medio. Certo, questo potrebbe essere un vantaggio, ma di salite come il mortirolo, scusatemi, non ce n’è.
Concentrandoci sull’ultimo decennio, partiamo dagli anni dal 2000 al 2005. Il Giro d’Italia perse nettamente valore in questi anni, combattuto solamente fra italiani e pochi stranieri, principalmente sudamericani, abili in salita ma disastrosi contro il tempo. In questi vinsero corridori come Garzelli, Simoni, due volte, Savoldelli, che bissò il successo del 2002 nel 2005, e un giovanissimo Cunego. Di certo la gente forte era al Tour de France: Lance Armstrong, Jan Ulrich, Ivan Basso, Joseba Beloki, Andreas Kloden, Levi Leiphaimer, Alexander Vinokourov, Francisco Mancebo, Richard Viranque e così via. Tutte le edizioni son state portate a casa da Armstrong, che si ritirò proprio nel 2005.
Nello stesso anno lasciò la guida del Tour Leblanc, con i suoi caratteristici percorsi. Analizzando semplicemente il numero dei chilometri che i corridori avrebbero dovuto affrontare contro il tempo ci si può fare un idea di chi fosse favorito dai suoi disegni: Lance Armstrong, che era sicuramente uno dei migliori interpreti al mondo di questo particolarissimo esercizio. Fra il 2001 e il 2005 fra i 160 e i 180 chilometri erano contro il tempo. Il numero delle crono era di 3 o 4, e una andava affrontata a squadre. Chiaro quindi che il texano aveva molto terreno che poteva sfruttare al meglio, rimanendo comunque il migliore anche in salita, con la sua caratteristica pedalata, con una cadenza di circa 100 bpm, cioè 100 pedalate al minuto. Al giorno d’oggi solamente il fenomenale Alberto Contador riesce a tenere un ritmo simile. Passiamo all’analisi dello Montagne: durante la gestione Leblanc il numero di vere tappe di montagne, escludendo quindi la classicissima quanto inutile tappa di Pau, era circa 5; unica eccezione il 2002 quando furono 6. Un altro dato importante è il numero di salite definite Hors Categorie, fuori categoria, quelle talmente difficile da meritare una classificazione particolare. Stiamo parlando di Colli come il Ventoux, il Galibier, l’Alpe d’Huez, Luz-Ardiden, o il Tourmalet. Questi i numeri di colli HC trovati dai corridori nei Tour fra il 2001 e il 2005: 6-6-5-4-5. Di sicuro non tantissimi. Stesso procedimento per gli arrivi in salita: 5-5-3-3-4. Basti pensare che un Giro non difficilissimo come quello del 2009 presentava 6 arrivi in salita per comprendere le differenze fra le due corse.
Ma dal 2006, e la nuova gestione Purdhomme, qualcosa è cambiato. Analizziamo gli stessi dati:
-Chilometri a cronometro: dai 115 nel 2006 ai 64 di quest’anno, con una diminuzione costante.
-Numero di tappe di vera montagna, dal 2006 al 2011: 4-6-7-6-7-7, quindi una o due in più rispetto al lustro precedente.
-Numero delle salite Hors Categorie, sempre dal 2006 al 2011: 7-7-8-4-6-9. Facendo eccezione al 2009, anno particolare per il ritorno di Lance Armstrong( quindi un percorso più facile forse era fatto per favorire un po’ il texano), il numero è sempre stato maggiore di quello massimo precedente.
-Numero di arrivi in salita, stessi anni di prima: 3-3-4-3-4-5, e almeno su questo dato si resta più o meno sulla stessa quantità di prima.
Andando a pescare nelle “credenze collettive” si parla sempre dei fantomatici primi 10 giorni di Tour de France, come noiosi perche adatti ai soli velocisti. Spuntando le varie altimetrie, si può individuare durante quale tappa sono state toccate le prime montagne importanti, ma poste in modo da poter dare degli scossoni alla classifica. Facendo un’unica “catene” dal 2001 al 2011, separando con una stanga le due gestioni, troviamo il seguente dato: 11-12-8-13-10-/12-8-9-7-7-12. Un grande avvicinamento ai primi giorni, cosa che di sicuro stimola il pubblico e i media a seguire la corsa con più attenzione fin da subito. Da prendere con le pinze i dati del 2011, in cui certo le montagne sono state attaccate tardi, ma i giorni precedenti erano ricchi di arrivi su strappi, o comunque tappe mosse che potevano mettere in difficoltà alcuni contendenti alla vittoria. In ogni modo lo spettacolo ne ha giovato
Sempre e comunque, nel periodo di tempo considerato, l’ultima parola era destinata ad una cronometro individuale. Unica eccezione il 2009, quando il verdetto definitivo fu affidato al Mount Ventoux.
Andando a vedere nel dettaglio il 2011, possiamo vedere come questo possa essere un punto di arrivo parziale del percorso intrapreso da Purdhomme, che esalta gli scalatori, e che li porta a confrontarsi faccia a faccia sulle grandi montagne, proposte in grandi numeri e consecutivamente. Basti pensare al “tappone” di quest’anno,che proponeva in serie Agnello, Izoard e Galibier, dove Andy Schleck ha compiuto un impresa epica, scattando a 62 km dal traguardo e arrivando in solitaria, con 2’ di vantaggio su tutti. Ottima tattica di squadra, che aveva inserito due uomini nella fuga del mattino, e smagrito il gruppo dei big per isolare il più possibile gli avversari; infatti nessuno era rimasto con più di un gregario, e i big in persona hanno dovuto lavorare per colmare un gap che era giunto fino ai 4’. Una cronometro individuale soltanto, posta al penultimo giorno, che ha dato certo un bello scossone alla classifica, anche per la Maglia Gialla, ma non invadente come le 2-3 crono presentate nei percorsi dell’era Armstrong.
In stile Giro d’Italia, sì. La corsa Rosa, con la direzione di Zomegnan, ha fatto scuola anche in Francia! Certo, non senza errori, ma la costruzione è interessante. Evitare di mettere tappe di trasferimento che esaltano solo gli sprinter, ma anche scattisti e velocisti anomali; tipi di corse che si possono decidere in molti modi diversi e mettono in gioco anche gli uomini di classifica. Disegni che prevedono giornate imprevedibili, come gli sterrati italiani, o il Pavèe lo scorso anno il Francia, che possono smuovere anch’essi la classifica, chiamando all’azione i capitani, spesso e volentieri lasciati soli da compagni di squadra che non sono all’altezza. Ma soprattutto, nonostante ci siano degli ottimi lavoratori, questi sono suddivisi in varie squadre e fanno difficilmente la differenza: Silvester Smyszd, quando è in forma, e pochi altri. Di certo è introvabile una squadra in grado di dominare la corsa, in qualsiasi tappa. L’unica squadra che si contraddistingue per completezza in gruppo è l’HTC, costruita attorno a Cavendish, e che si vede spesso schierata con 9 effettivi uno in fila all’altro davanti al gruppo per portare il Britannico allo sprint da una posizione vincente.
Emerge quindi un concetto di gara quanto mai incerto, se non per manifesta superiorità di uno dei contendenti, con diverse “location” in cui darsi battaglia, testa a testa, isolati, spesso senza gregari. Da questo contesto possono uscire sfide appassionanti, o imprese, che rimangono impresse nella mente dei tifosi per tanto, tantissimo tempo!
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